Così ho fatto una scoperta nuova. Non avevo mai provato prima a leggere un libro scritto male; e non solo perché non riuscissi a immedesimarmi nell'argomento.
Di me ho sempre pensato di essere una lettrice onnivora, e ho desiderato spesso la precisione di giudizio di altri, su libri che io avevo magari già letto, e che avevo più o meno amato. Anche solo per poco: amato come un bicchier d'acqua o una bibita d'estate. Perché a volte il desiderio di leggere è così assoluto che supera qualsiasi altra considerazione; come l'immagine che mi è sempre rimasta in mente, trovata scritta una volta sulla biografia di Antonio Gramsci: la sete di leggere per lui da bambino era così tanta, e i libri a disposizione così pochi, che pur di leggere scorreva almeno gli elenchi telefonici...
Insomma, del libro scritto male non dirò neppure il titolo e l'autore; del resto, il libro è lo stesso che mi ha permesso di conoscere la Natalia Ginzburg del post precedente: anche solo per questo, uno scopo l'ha avuto... E in più mi ha chiarito le idee su cosa significhi scrivere proprio male: a pagina 50 aveva già detto non solo quanto il lettore si sarebbe aspettato dopo altre 150; stradiceva, anzi (sempre entro le prime 50 pagine) per poi ripetersi infinite volte. Con una scansione temporale ben difficilmente riconoscibile (pensavo di essere ormai abituata a stream of consciousness et similia, e invece...). Letto perché datomi da una collega, ricevuto a sua volta da un rivenditore per la scuola... Uno di quei libri che vorrebbero forse accompagnare le ore di narrativa alle medie (!), e spacciato per motivi simili anche al biennio delle superiori...
Ma il secondo vero regalo di questo libro - proprio per la sua rara bruttezza - è stato quello di farmi divorare un volumetto che avevo acquistato tempo fa, e sempre demandato: Il mestiere di scrivere di Raymond Carver. E in lui ho trovato un autore pienamente amabile, e quindi amato.
Il ritratto che dà di sé, dei suoi debiti letterari, dei suoi maestri, delle condizioni in cui si ritrovò a scrivere (e ad insegnare a farlo): tutto è semplice e immediato, da farlo sentire così vicino di casa - e di spirito:
Il ritratto che dà di sé, dei suoi debiti letterari, dei suoi maestri, delle condizioni in cui si ritrovò a scrivere (e ad insegnare a farlo): tutto è semplice e immediato, da farlo sentire così vicino di casa - e di spirito:
"Quando si finisce di leggere un bellissimo racconto e si mette via il libro, ci si dovrebbe fermare un momento, come per riprendersi. In questo momento, se lo scrittore è riuscito nel suo intento, ci dovrebbe essere il senso di una comunione emotiva e intellettuale ... Dovrebbe lasciare un'impressione tale che l'opera, come suggeriva Hemingway, diventi parte dell'esperienza del lettore. Altrimenti, sul serio, perché mai si dovrebbe chiedere alle gente di leggerla? Anzi - diremo di più - perché mai la si scrive?"
Carver parla di sé come aspirante allievo, quando ancora non sapeva se avrebbe potuto frequentare l'università; poi di sé come allievo vero e proprio - di John Gardner - , con tutte le titubanze, le domande, i batticuore di chi sta realizzando la sua passione più cara. E così mi piace poter pensare anche del mio lavoro, quando restituisco i temi ai miei studenti:
"Non so come Gardner si comportasse con gli altri studenti quando veniva il momento di avere degli incontri individuali per discutere del nostro lavoro. Ritengo che dedicasse a tutti una grande attenzione. Ma avevo e ho ancora l'impressione che egli prendesse i miei racconti più seriamente, e li leggesse più a fondo e più attentamente di quanto avessi il diritto di aspettarmi. Ero completamente imprepararo al genere di critiche che ricevevo da lui ... Certe volte discutevamo delle virgole del mio racconto come se fossero le cose più importanti del mondo in quel momento - e, in effetti, lo erano. Comunque cercava anche sempre qualcosa da lodare. Quando c'era una frase, una battuta di dialogo o un passaggio narrativo che gli piaceva, qualcosa che egli pensava funzionasse e mandasse avanti la storia in modo piacevole o inatteso, scriveva a margine: "Bello!", oppure "Buono!". Quando vedevo questi commenti, il cuore mi si risollevava."
Nel suo ultimo discorso (a 50 anni, per il conferimento della Laurea in Lettere ad honorem) così si congeda:
"Santa Teresa, questa donna straordinaria vissuta 373 anni fa, ha detto: «Le parole conducono ai fatti [...]. Preparano l'anima, la rendono pronta e la portano alla tenerezza». Così espresso, questo pensiero è limpido e bellissimo, in un'epoca che è sicuramente meno disponibile a sostenere questo importante collegamento tra ciò che diciamo e ciò che facciamo... Molto tempo dopo che quello che vi ho detto vi sarà passato di mente, quando noterete la fine di un importante periodo della vostra vita e l'inizio di uno nuovo, nell'elaborare i vostri destini personali, provate a ricordare che le parole, quelle giuste, quelle vere, possono avere lo stesso potere delle azioni. E ricordate anche quella parola poco usata che è ormai quasi sparita dall'uso, sia in pubblico che in privato: «tenerezza». Non potrà farvi male. E quell'altra parola: «anima» - o spirito, se preferite, se vi rende più facile rivendicare quel territorio. Non scordatevi neanche quella. Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E' una preparazione sufficiente. Non c'é bisogno di altre parole."
Scegliere parole con la stessa cura - tenerezza - con cui fissiamo i particolari della vita che ci interrogano di più; intuire che nelle parole di un altro c'è un'anima nobile, e perciò le sue parole val la pena fissarle, imprimersele nella memoria, ripescarle quando sarà il momento (in fondo è il mio amico Dante: "Trasumanar significar per verba / non si porìa, però l'essemplo basti / a cui esperienza grazia serba...").
E infine, pensando a Carver e al suo insegnamento nell'America degli anni '70, capire quanto ancora l'Università italiana abbia da imparare, se vuole trasmettere ai suoi studenti lo stesso amore per le lettere che ha mosso Carver verso i suoi studenti...
Nessun commento:
Posta un commento