Ieri, ascoltando parlare una mia amica, finalmente mi si è richiarita: la via di fuga da un dilemma che mi assale sempre.
Come tanti insegnanti che conosco, mi sono sempre interrogata su come si potesse essere giusti e nello stesso tempo buoni.
Perché, insomma, là dove si è giusti, spesso sembra di non esserlo più, buoni.
E viceversa.
E viceversa.
Nel dilemma, ho sempre optato per il giusto: gli studenti hanno bisogno di giustizia (e anche io). (E pazienza per la bontà...).
Ché poi l'aveva già detto anche quel realista di Machiavelli: tra l'essere amati, o temuti, meglio il temuti (possibilmente, senza arrivare ad essere odiati...)
Finché l'altra sera, ascoltando una mia amica che parlava di suo padre, ho capito di più: dal dilemma si esce solo se uno ha presente che quegli studenti sono persone che crescono. Che hanno diritto al meglio per sé. E quindi, essere giusti e buoni insieme, è vederli come persone che hanno un cammino da fare, e gli si dà il meglio perché possano farcela con le loro gambe. Ma stanno crescendo, e allora cadono, sbagliano (è normale). Un bambino non lo si lascia sdraiato sull'asfalto, quando cade. Si sgrida se attraversa la strada col rosso. Lo si sgrida, lo si rialza, e poi si sorride.
Lo si sgrida proprio perché possa tornare a correre, e sorridere lui stesso.
Lo si sgrida proprio perché possa tornare a correre, e sorridere lui stesso.
A scriverlo, mi sembra quasi la scoperta dell'acqua calda (però se ci ho pensato così spesso, in questi anni, qualcosa vorrà dire... Forse solo che le verità si riconoscono proprio perché sono molto, molto semplici...?)
Pensando al rapporto tra adulti, sembra che questo funzioni meno (non so: così dice anche il Disagiato...).
Pensando al rapporto tra adulti, sembra che questo funzioni meno (non so: così dice anche il Disagiato...).
Però io da ieri mi sento più confortata (e questo non mi sembra poco...)
Delle tante sgridate che ho preso, quella di cui ancora ricordo ogni parola , è la ramanzina di una mia bravissima insegnante di inglese delle medie. Durante un compito in classe si era accorta che stavo copiando. A parte la giusta punizione che ricevetti, ricordo che mi convocò privatamente per chiedermi il perchè. Si prese la responsabilità di indagare profondamente nel mio animo per capire cosa mi aveva indotto a compiere quell'azione, distinguendo il significato del gesto dal significante, cioè il disagio che, inconsciamente, volevo far affiorare.Compresi tante cose e ancora oggi la ricordo con grande stima e piacere. A mio parere la punizione va spiegata cercando anche di far comprendere allo studente come si sente la controparte, ergo l'insegnante, nel dover esercitare il suo ruolo di educatore.
RispondiEliminaEh sì. E anche questo è uno degli scopi per cui ho iniziato questo blog...
RispondiEliminaNel mio mestiere, fra l'altro, capisco che gli studenti comunicano tanto anche nei loro silenzi, per esempio. Quando li si interroga, c'è silenzio e silenzio (se li guardo in faccia, almeno, lo si capisce...).
Penso che insegnare sia un mestiere bellissimo e infinito, proprio perché insondabile (e potenzialmente grande) è la persona di ogni mio studente.